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Published on: La Farandola News

Parliamo con… Domenico Iannacone

Come per magia ci viene istintivo incontrare sul nostro percorso dei personaggi unici e rari, personaggi che mettono l’umanità prima di ogni altra cosa. È difficile trovare persone così nella vita normale, pensarlo nell’ambito giornalistico diventa un’utopia. Eppure esistono, ci sono, puoi dialogare con loro con grande semplicità, confrontandoti su concetti di spessore e attualità. L’esempio di tutto ciò è Domenico Iannaccone.

Il suo modo di raccontare trae ispirazione dalla migliore tradizione documentarista italiana e si pone a metà strada tra il cinema neorealista e il racconto giornalistico del reale. La sua carriera giornalistica inizia sulle testate regionali del Corriere del Molise e del Quotidiano del Molise, diventando in seguito caporedattore dell’emittente locale Teleregione (rete televisiva privata del Molise e dell’Abruzzo). Ha portato sugli schermi un modo di raccontare la realtà quasi unico: una forma di neorealismo giornalistico che incrocia lentezza e ascolto empatico, sguardo ai piccoli frammenti del quotidiano tramite cui raccontare fenomeni universali. Tanti i riconoscimenti per la sua carriera: nel 2015 ha vinto il Premio Paolo Borsellino e nel 2017 il Premio Goffredo Parise. Riceve riconoscimenti internazionali con il docu-film Lontano dagli occhi, aggiudicandosi il Civis Media Prize di Berlino, il Real Screen Awards di Los Angeles e il Peace Jam Jury Awards di Montecarlo. Nel 2018 vince il Festival del Cinema di Spello. Nel 2019 il Centro Sperimentale di Cinema Scuola di Cinematografia lo ha insignito del diploma honoris causa in Reportage Audiovisivo. Nel 2021 gli viene assegnato il Premio Kapuscinski e nello stesso anno premiato alla XVI edizione del Premio Moige. Nel 2022 è tra i vincitori de Il Premiolino uno dei più antichi e autorevoli premi dedicati al giornalismo.

Domenico buongiorno è per noi della rivista La Farandola News un piacere poterti intervistare e conoscerti. Ci viene subito in mente una domanda l’obiettivo dei tuoi spettacoli qual è?

L’idea di allargare il campo della narrazione a quella teatrale è un qualcosa che ho di mio per impostazione e per formazione, è come se avessi introdotto dei modelli che sono quindi teatrali, cinematografici che esulano la televisione. In questo momento specifico la mancanza di spazio televisivo per me ha coinciso con la voglia di incontrare la gente, di fare esattamente quello che ho sempre fatto nella vita: raccontare le cose attraversando luoghi, incontrando persone e questo mi ha permesso di creare una sorta di rapporto intenso con il telespettatore. L’idea di poterlo fare anche in teatro è come se mi avesse dato un elemento in più per avvicinarmi alle persone. Il teatro è il luogo che per eccellenza annulla le distanze fisiche, dove la rappresentazione è fatta con la voce, con gli occhi, con il respiro, cosa che cosa che con la televisione non può avere. Personalmente, in questo momento poter andare nei teatri è un modo forte per dire io ci sto, e la risposta è quella del pubblico che riempie i teatri stessi, sentendo di riflesso l’esigenza di immergersi nelle storie, anche quelle che ho già raccontato, al solo scopo di trovare una chiave di lettura diversa.

Nei tuoi racconti, si evidenzia sempre la fragilità delle persone, si mette in risalto in maniera forte e decisa. Quando è nata in te quest’idea?

Io credo di aver raccontato in questi anni la fragilità come la intendo io: di fatto una sorta di elemento di forza. Mi permette di raccontare forme di esperienza, dove le persone mostrano anche la loro forza emotiva e morale. Nel lavoro che faccio mi interessa che ci sia in primis un riferimento morale nelle storie che racconto.

Parliamo di Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale dalla personalità eclettica e tormentata, osservatore della contemporaneità. Secondo te, oggi in Italia esiste un personaggio di spessore come lui?

Il ruolo dell’intellettuale puro come poteva essere Pierpaolo Pasolini e la mancanza di punti di riferimento legati agli uomini della cultura ha creato un vuoto nel nostro paese. Devo dire che Pasolini, benché sia stato fortemente contrastato per le sue idee e opposizione politica, per la sua idea del mondo e dell’uomo, ha comunque sempre segnato tracciato delle strade che oggi personalmente mancano, si nota l’assenza di intellettuali di riferimento. Se dovessi scegliere intellettuali di riferimento avrei difficoltà a farlo. Ho avuto la fortuna di avere una frequentazione assai preziosa con Andrea Camilleri che di per sé ha rappresentato un argine, lui stesso ha preso una posizione netta su alcuni argomenti: si veda il delicato argomento sugli immigrati. Con lui ho fatto un lavoro che si chiama Lontano dagli occhi, un viaggio nell’odissea degli immigranti nel Canale di Sicilia, dove lo scrittore in occasione della prima giornata nazionale delle vittime dell’immigrazione (3 ottobre del 2016) ha preso una posizione di solidarietà molto forte. Per concludere, sinceramente non vedo intellettuali pronti, noto invece con amarezza uno stato di abbandono culturale.

Come definiresti il tuo mestiere?

Io dico sempre che non sono un giornalista ma sono un raccontatore di storie, mi piace immergermi nelle vite altrui, amo essere vicino alle persone e questo mi consente di essere uno che può raccontare delle storie con un’empatia particolare. Qualcuno mi dice “ma tu sei uno psicologo, un sociologo, il metodo che usi per parlare con la gente è appunto molto pragmatico, psicologico”: le persone si aprono perché vedono in te una persona pronta a capire le problematiche degli altri.

Abbiamo l’impressione che il sistema di tv sia monopolizzato, è sempre difficile proporre idee e realizzarle. Condividi questo pensiero?

Sì è vero, mancano idee nuove in televisione. Quando ho iniziato a fare i miei programmi, mi ricordo che dissi al direttore di allora che avevo intenzione di introdurre il concetto di “inchiesta morale”, un concetto che va oltre una semplice inchiesta giudiziaria. A me interessa quello che le persone hanno dentro, compresa la possibilità di sbagliare e questo mi permette di incontrare e trovare storie quasi improbabili che invece nella vita esistono davvero. Io preferisco storie dove ci sia una reazione morale delle persone.

 Domenico hai vinto ben cinque volte il premio Ilaria Alpi, con inchieste come “Il terzo mondo” sul quartiere Scampia, il progetto “Storia di un’Italia” incosciente se il giornalista che ha più di altri ha portato alla luce il dramma della terra dei fuochi. Come hai fatto a realizzare questo?

A Scampia sono entrato molti anni fa. Forse sono stato uno dei primi perché nella fase in cui andai era il 2023 lavoravo per Rai 3 il programma Ballarò, in quel periodo c’era in atto la faida di Secondigliano che coinvolgeva una serie di clan napoletani. Nel leggere le notizie l’impressione era quella di imbattersi in un bollettino di guerra. Mi interessava capire perché nessuna televisione si recasse in quei posti. Andando a Scampia fui introdotto all’interno da una persona che conosceva bene il luogo. Il primo giorno, appena arrivato, fui fermato dalla polizia, perquisito, poi capirono chi fossi e cosa dovevo fare in quel luogo. Ogni volta che mi recavo in posti simili scoprivo sempre cose nuove. Tanti ricordi, uno in particolare mi è rimasto in mente: mi recai con un operatore in un luogo che sembrava un girone dantesco, dove all’interno trovai una cinquantine di persone che si drogavano contemporaneamente, erano in realtà storie di vera disperazione ,difficili da descrivere. Pensate che, nonostante l’argomento così toccante e tragico, la reazione dell’allora Sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, in trasmissione fu quello di alzarsi abbandonare la trasmissione accusandomi di aver fatto conoscere solo il lato negativo della città. Ed è proprio in quel momento, che ho realizzato la convinzione dell’ottimo lavoro svolto e di apertura su una realtà che tanti facevano finta di ignorare. Scampia è una chiave di lettura di questo nostro mondo, è una realtà che doveva essere presa in considerazione molto prima. Sono entrato in questi posti con l’idea di non far mai perdere la dignità delle persone che avevo di fronte a me.

I tuoi programmi sono seguiti sempre con grande attenzione dal pubblico con indici di ascolto elevati. Ci domandiamo perché la Rai, all’inizio ben disposta al tuo lavoro di frontiera, poi ebbe un cambiamento gradualmente. Non capiamo, tu che risposta ti dai?

Tante volte finisci per essere osteggiato perché dici e racconti il vero: io personalmente faccio un tipo di narrazione che è inoppugnabile. Escludo sempre la politica, non intervisto mai personaggi che abbiano attinenza con la materia. Per me la realtà vera è quella che esce fuori, quella pura e non mediata da altri, dove non ci sono elementi che si contrappongono. Credo, forse, che i miei lavori danno fastidio perché sono liberi, trasmettono verità e realtà in luoghi difficili. Faccio sociologia, “osservazione partecipante”: entro in un luogo, mi confondo con le persone, ne faccio parte, così riesco ad essere vero e raccontare le verità che ci circondano. Forse, per questo mio essere così schietto a volte sono messo da parte.

A Roma hai visto per lavoro vari quartieri, incontrato persone. Ci sono luoghi che, secondo te, si potrebbero migliorare anche dal punto di vista culturale?

Uno dei quartieri dove ho trovato una chiusura forte è San Basilio. Complesso da raccontare, nonostante sia stato introdotto da chi conosceva bene quel quadrante. È una realtà molto incupita, dove mi sono reso conto che c’è molto da lavorare per ricomporre tutto, anche dal punto di vista culturale. Servono avamposti che aiutino le persone, i giovani in particolare, a trovare un futuro migliore, propositivo. In un posto problematico devi agire, io personalmente non credo nelle bonifiche, di contro confido nell’importanza di controlli sul territorio ma necessitano interventi culturali. Faccio riferimento in particolare alla storia di Caivano nel napoletano, dove ho lavorato e fatto una puntata nello speciale “I dieci comandamenti” dal titolo “Come figli miei”, dove una preside di un Istituto scolastico lottava tutti i giorni per avere i suoi ragazzi a scuola in un territorio difficile com’è appunto il Parco Verde a Caivano, dove sembra che droga, omicidi, degrado e prostituzione non lascino via di scampo. In un luogo dove la dispersione scolastica raggiunge i più alti livelli d’Italia, la scuola rappresenta l’unico baluardo di legalità e l’unica porta aperta verso il futuro. È il simbolo forte di una scuola che resiste e non vuole perdere e far morire i suoi ragazzi. Questo è un atto di eroismo di chi considera l’insegnamento uno dei valori più importanti e concreti della società. Quindi parlo di avamposto culturale che può essere la Scuola o l’associazionismo come nel vostro caso, se non ci sono queste sinergie, salta inevitabilmente il patto sociale, tutto diventa compromesso ed in bilico tra legalità e illegalità.